25 Luglio 2018 silvia

Indicatori di Movimento 362

Questa sera abbiamo portato via le mie cose dal Deposito del vento.

Un carico a Santa Croce, con la vecchia cucina economica Gasfire di mia nonna e ancora tre degli scaffali che erano nel magazzino grande, ai tempi del negozio in via Dolzino.

Il secondo a Gordona, con l’Armadio Sperimentale, la macchina del vento, vasi-vasetti e colori, due scatole di mani e braccia di garza gessata, lo sgabello Stokke arancione e il portaombrelli revolver, la lunga scatola di legno che mi regalò Rolf colma di penne da cappello colorate, una vecchia valigia con tessuti e centrini, la macchina da cucire e la taglia-cuci dello zio Pierluigi, un bidone della spazzatura con la spazzatura, il Dyson e la scopa delle ragnatele, uno scaldino elettrico, la cartella delle spirali con gli aceti di melagrana, la sedia bianca e lo zerbino nero, il telaio con l’inizio di arazzo di lana. Un autoritratto. Fermo a quel punto, lo stesso da troppi anni.

Come due anni fa, precisamente in questi giorni, traslocare. Cambio posto e qualcosa cade di dentro. Ogni fine un dolore. Che mi sento ingombrante e disintegrata insieme. L’attitudine nomade di un condominio. Non ho uno spazio che sento mio e ne desidero uno. Allo stesso modo temo di dovermi spostare di nuovo, di dover muovere tutto, di chiedere aiuto, di non essere autosufficiente.
D’ora in poi solo oggetti minimi, se di oggetti si dovrà trattare. Leggerezza.
Voglio trovare un luogo dove sentirmi intera, interamente a casa. E non doverlo più lasciare.

Pure gli occhi dei piedi possono piangere.

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